La diffusione di un video in internet: diffamazione online ed illecito trattamento di dati personali
Di recente abbiamo avuto l’occasione di approfondire la cd. diffamazione online: nel nostro caso essa veniva perpetrata nei confronti di un’azienda mediante pubblicazione di un video offensivo su una piattaforma web e successiva sua condivisione su un social network.
La prima riflessione è che l’autore del filmato perseguiva dolosamente un obiettivo: ledere la “reputazione economica” di una società (ma la trattazione che seguirà pertiene anche l’onore ed il decoro di una singola persona). Con l’espressione “reputazione economica” s’intende la reputazione che riguarda l’attività economica, e cioè l’attività di produzione o commercio di beni o servizi, e più precisamente la considerazione o rappresentazione che il pubblico ha delle capacità del soggetto di conseguire risultati positivi soprattutto in termini di bontà dei prodotti o dei servizi di guadagno o profitto. La buona reputazione di un’impresa può essere determinante per influenzare le scelte di mercato dei consumatori. La lesione reputazionale, nel caso concreto, era esponenziale, in quanto su internet non sussiste un generale principio selettivo ordinante la formazione e la diffusione dell’informazione che, conseguentemente, spesso è priva del requisito di obiettività, completezza, autorevolezza o addirittura di verità. Come evidenziato in una recente sentenza di merito, ritenere che l’utente di internet sia un utente smaliziato, che navighi abitualmente, sicuro di ciò che cerca nel sistema informatico ed in grado di discernere i contenuti offerti “è un immagine corrispondente ad una fetta minoritaria degli utenti del sistema, utopistica con riguardo all’utente medio” (v. Trib. Milano, ord., 1 aprile 2011, FI, 2, 2011, 13 ss.). Per comprendere tale concetto basti considerare il recente dibattito sulla cd. “post-verità” nell’ambito dell’ultima campagna elettorale per la designazione del Presidente degli Stati Uniti d’America, o, più vicino a noi, sulle cc.dd. “bufale” (o fake-news) che circolano in rete e che, secondo taluni, hanno condizionato l’esito del recente referendum costituzionale; è di questi giorni, ad esempio, la notizia che il noto social “Facebook” stia predisponendo risorse e nuove procedure per la rimozione dal sito di informazioni false od inesatte.
Ciò premesso, valutiamo quali sono i reati che l’uploader di un filmato denigratorio dell’altrui reputazione compie su una piattaforma web. Il primo illecito che viene in rilievo e’ quello di diffamazione online o a mezzo internet, previsto e punito dall’art. 595 codice penale. In particolare, la fattispecie è aggravata ex art. 595, co. 3, c.p. secondo cui la pena e’ aumentata “Se l’offesa e’ recata col mezzo della stampa, o con qualsiasi altro mezzo di pubblicita’, ovvero in atto pubblico“. Si rammenta che “La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca ‘facebook’ integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiche’ trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone” (Cass. Pen., Sez. I, Sent. n. 24431 del 28 aprile 2015, dep. 8 giugno 2015, Rv. 264007). Per comprendere la portata di una simile condotta appare fondamentale citare anche la sentenza 25 ottobre 2011, cause riunite C 509/09 e C 161/10, della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che ha affermato che la diffamazione conseguente alla pubblicazione di contenuti offensivi su Internet presenti aspetti differenziati ed autonomi rispetto alla diffusione di un testo a stampa, in quanto quest’ultima e’, per definizione, territorialmente circoscritta, mentre i contenuti via web possono essere consultati istantaneamente da un numero indefinito di utenti, ovunque nel mondo. Nessun dubbio, poi, che persona offesa del delitto in esame possa essere anche una persona giuridica. Infatti “Nel reato di diffamazione in cui sia persona offesa un ente commerciale, il concetto di reputazione deve ritenersi comprensivo anche del profilo connesso all’attività economica svolta dall’ente ed alla considerazione che esso ottiene nel contesto sociale, sicche’ la condotta lesiva puo’ attenere anche al buon nome commerciale del soggetto giuridico” (Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 43184 del 21 settembre 2012, dep. 8 novembre 2012, Rv. 253773; e cfr. precedenti ivi citati, segnatamente vedasi Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 19368 del 14 febbraio 2006, Rv. 234539 sulla qualifica di ‘persona offesa’ in capo ad una societa’ di capitali, qual e’ il caso in esame). Sotto il profilo oggettivo e’ evidente che la pubblicazione online di un filmato dal contenuto denigratorio ed offensivo della reputazione personale e commerciale di terzi integri l’elemento materiale del reato in esame. Il dolo di fattispecie consiste nella coscienza e volonta’ di offendere l’altrui reputazione ed e’ palese la sussistenza dell’elemento psicologico del delitto nella condotta di chi, nel montaggio di un video, artatamente manipoli immagini filmati e parole al preciso scopo di offendere l’onore ed il decoro altrui, la reputazione personale e professionale, ed economica di una società commerciale.
Ma la condotta in disamina perfeziona altresì il reato di illecito trattamento di dati personali ex art. 167 del D. Lgs. 196 del 2003. L’art. 4 del citato D. Lgs. 196 definisce trattamento “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca dati“; definisce dato personale “qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale“.
Nella fattispecie concreta, ci soccorre l’importantissima sentenza della Corte di Cassazione, n. 5107 del 17 dicembre 2013 (dep. 3 febbraio 2014), Rv. 258520, sul CASO GOOGLE – Vivi Down, relativo alla pubblicazione online di un video riproducente atti di bullismo ai danni di un diversamente abile. Secondo la Suprema Corte, aderendo alla sentenza della Corte di Appello di Milano, I Sez., 27 febbraio 2013 oggetto di ricorso, e’ il titolare del trattamento ad avere l’obbligo di acquisire il consenso al trattamento dei dati personali, dunque “toccava … all’uploader, che caricando il video si assumeva la responsabilità del trattamento dei dati… chiedere ed ottenere il consenso prescritto“. Tuttavia, la piattaforma web non è esente da responsabilità penale in via assoluta. La succitata sentenza della Corte di Cassazione sul caso Google, infatti, che per ragioni espositive non può certamente essere qui illustrata, aveva escluso la responsabilità penale “a carico degli amministratori e dei responsabili di una società fornitrice di servizi di Internet hosting provider che memorizza e rende accessibile a terzi un video contenente dati sensibili (…) omettendo di informare l’utente che immette il file sul sito dell’obbligo di rispettare la legislazione sul trattamento dei dati personali, qualora il contenuto multimediale sia rimosso immediatamente dopo le segnalazioni di altri utenti e la richiesta della polizia“. La conseguenza è che la piattaforma può essere considerata titolare del trattamento dei dati personali, e cioè responsabile per l’inerzia nella rimozione del contenuto multimediale, quando abbia effettiva conoscenza della sua illiceità, secondo quando disposto dal D. Lgs. 9 aprile 2003, n. 70. Su questa linea si pone il recentissimo arresto della Cassazione Penale, Sez. V, Sentenza n. 54946 del 27 dicembre 2016, che ha sancito la sussistenza di un obbligo di rimozione, in capo ai gestori dei siti internet, di ogni contenuto potenzialmente offensivo pubblicato dagli utenti di cui il gestore sia venuto a conoscenza (anche in via potenziale).
Ciò detto, e tornando al caso in esame, l‘uploader aveva il preciso obiettivo, manifestato dalla manipolazione di immagini, video, parole, di diffamare, denigrare terze persone, dunque “recare ad altri un danno“. La violazione dell’art. 23 del D. Lgs. 196 del 2003 (mancata acquisizione del consenso delle persone interessate al trattamento di dati personali) ha, pertanto, integrato, con la pubblicazione online del video incriminato, il reato di cui all’art. 167, in combinato disposto con l’art. 4, del D. Lgs. 196 del 2003, reputandosi certamente integrati gli elementi essenziali della precitata fattispecie penale.
Un’ultimo aspetto che possiamo qui sinteticamente affrontare è il seguente. Trattasi della possibilità, nel presentare un atto di denuncia querela alla polizia postale o direttamente all’Autorità giudiziaria, della persona offesa da questi reati di chiedere una tutela urgente per rimuovere da internet il filmato e limitare i danni che una sua diffusione incontrollata comporta. Si pensi al recente caso di suicidio di una donna che non era riuscita psicologicamente ad affrontare la diffusione di un filmato erotico che la riguardava e che, pare, tuttora circoli in rete; ricordiamo che nel caso del disabile vittima di bullismo, il video, tra quelli più “divertenti”, era rimasto in rete per circa due mesi. Prima ancora dell’intervento dell’Autorità giudiziaria, comunque, evidenziamo che le principali piattaforme web consentono agli utenti di segnalare, con moduli standard, la presenza di filmati dal contenuto illecito caricati sui loro server.
Se ciò non portasse alla rimozione del video, la Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, in tema di sequestro preventivo ha affermato che “l’autorità giudiziaria, ove ricorrano i presupposti del fumus commissi delicti e del periculum in mora, può disporre, nel rispetto del principio di proporzionalità, il sequestro preventivo di un intero sito web o di una singola pagina telematica, imponendo al fornitore dei servizi internet, anche in via di urgenza, di oscurare una risorsa elettronica o di impedirne l’accesso agli utenti ai sensi degli artt. 14, 15 e 16 del D. Lgs. 9 aprile 2003, n. 70, in quanto la equiparazione dei dati informatici alle cose in senso giuridico consente di inibire la disponibilità delle informazioni in rete e di impedire la protrazione delle conseguenze dannose del reato” (Cass. Pen. Sezioni Unite, Sentenza n. 31022 del 29 gennaio 2015, dep. 17 luglio 2015, Rv. 264089). Se l’ipotesi di reato è fondata e si riesce a dimostrare il pericolo ed i potenziali danni che la diffusione del filmato comporta, l’Autorità giudiziaria, quindi, ha la facoltà di disporre la misura cautelare reale del sequestro preventivo. D’altronde, alla luce della sentenza delle Sezioni Unite n. 31022 del 2015 “deve ritenersi ormai per definitivamente acquisito che il dato informatico in sè, in quanto normativamente equiparato ad una cosa, può essere oggetto di sequestro, da eseguirsi, avuto riguardo al caso concreto, secondo determinate modalità espressamente previste dal legislatore e nel rispetto del principio di proporzionalità“. Ciò vale sia per il sequestro probatorio sia per il sequestro preventivo “non essendo concepibile sul piano logico una differenziata valutazione al riguardo“. Le Sezioni Unite succitate hanno individuato anche le concrete modalità esecutive della cautela reale che ha ad oggetto risorse telematiche o informatiche. Gli Ermellini dovevano, infatti, scegliere tra due opzioni: i) la sola adprehensio, in senso fisico della “cosa”; ii) una vera e propria inibitoria rivolta al fornitore di connettività, che deve impedire agli utenti l’accesso al sito o alla singola pagina web incriminati ovvero rimuovere il file che viene in rilievo, con l’effetto di arrestare l’attività criminosa in atto o scongiurare la commissione di ulteriori condotte illecite. La scelta è ricaduta sulla modalità operativa più ampia, ritenendo che “il sequestro preventivo di risorse telematiche o informatiche sia compatibile con la detta inibitoria, la sola in grado di assicurare effettività alla cautela“.
Ne consegue che, ricorrendo i presupposti applicativi stabiliti dall’art. 321 c.p.p., in relazione alla pubblicazione online di un contenuto multimediale illecito ed integrante più fattispecie penali, l’Autorità Giudiziaria italiana può e deve chiedere alla società dell’informazione, anche con gli strumenti della rogatoria all’estero, provvedimenti inibitori quali: 1) il blocco dell’accesso degli utenti alle risorse elettroniche incriminate (i.e. l’indirizzo URL), intervenendo tecnicamente in modo consequenziale, rendendo concretamente indisponibili tali risorse; 2) la rimozione del file multimediale lesivo che viene in rilievo e che è accessibile dagli utenti (all’URL segnalato).